Storia di una fuga parte VI

12/ 01/ 2030

Cara mamma, oggi ho fatto ancora quel sogno. Sono passati parecchi anni dal rapimento, ma come ti dicevo non smette di tormentarmi.

Ero ancora in sedia a rotelle ed ero invecchiato. È comparsa una scia di luce e delle falene. C’erano inoltre delle statue addossate alle pareti di gente che conoscevo. Come Pompei. Le mura diventavano sempre più strette, e dal pavimento usciva metanfetamina e bottiglie su bottiglie di birra. Si hai capito bene! Metanfetamina, quella di cui abusavo da ragazzo rubandola dall’ospedale. Mi arrivava sul collo, e appena mi raggiunse il naso ricordai quell’indescrivibile e dolciastro sapore del quale avevo sempre fatto uso fino alla disintossicazione. Al solo pensiero mi si dilatarono le pupille. Si stava creando uno strettissimo corridoio. C’era una sola uscita distante da me anni luce. Dovevo fare in fretta perché l’intero andito si sarebbe riempito di stupefacenti. E alla fine riuscii a raggiungere l’uscita.

In questi due giorni sto ancora affrontando la depressione causata probabilmente dalla morte di Matteo. Era l’unico che mi voleva bene a questo mondo e probabilmente adesso sta leggendo questa lettera con te. Mi rendo conto che invece di chiudere le porte al resto del mondo dovrei aprirle e dimenticare questa storia. Ho ripreso a bere, e a abusare di droghe, anche dopo il lavaggio gastrico. Sto tutto il giorno sul divano a guardare la televisione o a riguardare vecchie foto. Sono ingrassato di qualche kg. Stammi bene Matteo e salutami mamma se stai leggendo…

“Sei ancora qui?” Chiesi.

“Te l’ho già spiegato, io non me ne vado finché non confessi tutto.”

“Non posso ancora credere di essere arrivato a questo punto di degrado mentale. Il dottore aveva detto che è una cosa seria, forse dovrei parlare di te anche con qualche psicologo.”

“Ti riempirebbero di inutili farmaci a tal punto che non riuscirai più a reggerti in piedi. Ti prenderanno per pazzo. Forse dovrai convivere con me ancora per un po’.”

Credo che il Creatore abbia mandato qualcuno a farmi pentire di ciò che ho fatto. Bojack è una personificazione di Matteo. Il suo nome è ispirato a una serie TV del momento, in cui il protagonista è un uomo antropomorfo con le sembianze di un cavallo. Indossa una maschera da cavallo, la stessa che portava Matteo. Il suo carattere è difficile, prima di tutto è palesemente afflitto da narcisismo e superbia, su questo sono sicuro. È anche a volte freddo e cinico, e data la sua superbia io per lui sono solo un effimero insetto.

Sono, appunto, passati più di vent’anni dal rapimento di Jago, ora sono invecchiato ma nonostante tutti gli anni passati non posso ancora credere di avere sparato a Matteo. Ricordo il funerale, ricordo il colpo che gli perforò il cranio. Ricordo il suo cadavere che aveva assunto un colore più bianco della farina di buratta. La farina più bianca di tutte, con la quale mamma impastava il pane a Ragusa. Il suo occhio destro era inclinato verso il basso, e i suoi brillanti bottoni d’ottone erano caduti e si erano sparsi tra il sangue e le sue costole rotte. Ricordo Michele in lacrime e Freid frustrato e avvilito. Ricordo Jago morto soffocato dalle tante botte che aveva ricevuto.

Come siamo arrivati a tutto questo?

La pazzia porta a cose terribili. La pazzia è portata dalle droghe. Le droghe sono portate dalla mia solitudine. La solitudine è portata dalla depressione. La depressione è portata dalla morte di Matteo. La morte di Matteo è portata da me. Tutto accade per un motivo. E se mi ritrovo qua è solo per colpa mia.

Dopo tutto questo tempo mi sono convinto a accontentare Bojack. Così presi due acidi per la creatività, fecero un rapidissimo effetto e subito le mie pupille erano diventate ventose. Avevo i miei 90 anni buoni. C’era un dottore che conoscevo, (l’unico che sapeva che mi drogavo), e disse che di questo passo sarei morto molto presto. Ma io non lo ascoltavo. Pensavo di essere ancora giovane e che bastava non passare a droghe pesanti. A 90 anni non erano molti quelli che cominciavano a farsi. Ogni giorno chiudevo gli occhi e mi addormentavo con la paura di non riuscire più riaprirli la mattina. Sapevo che sarei durato, se fortunato, una settimana. Ma volevo vivere i miei giorni senza il peso di Bojack. Chiamai uno scrittore, Filippo Rosito.

Il primo giorno gli feci un caffè. Amaro senza zucchero. Come Fried non era tanto alto. Portava un braccialetto da uomo arrugginito sulla destra, che ormai gli era piccolo. Era più giovane di me.

Si allacciò le scarpe. Mocassini. Non nascosi la canna, perché sapevo che prima o poi avrei dovuto dirgli che mi facevo. Lui come mi vide fumare me la levò subito di bocca. Mi disse circa il solito bla-bla delle droghe, e che per la mia età è fatale. Avevo fatto talmente tanti danni al mio corpo che era come se avessi già scritto la lapide.

Dopo un po’ ci fece l’abitudine.

Nonostante tutti gli anni ero ancora famoso in America, non avevo la felicità ma avevo la ricchezza e la fama. Conquistai la ricchezza con il ristorante fino al ’60. Poi durante il mio coma, in un modo o nell’altro lo cedettero ad un deficiente che lo fece fallire. Non lo fece fallire economicamente, perché il ristorante c’è tutt’ora a Jersey. Non c’era più la stessa sensazione che richiamava i piatti italiani e l’agriturismo. Chiusero tutto il boschetto e il giardino ai bambini, perché dicevano che: “Il manto erboso deve riposare, e che si rovinavano i fiori.” I fiori erano margherite e viole che crescevano in modo genuino, senza che nessuno le piantasse. Avevo delle aiuole, e dei fiori a cui tenevo, dove avevo scritto di non toccare. Ma non mi spingevo oltre. Il ristorante è diventato famoso come primo agriturismo d’America, e doveva quindi mantenere le sue origini. Non doveva privare i bambini di giocare all’aperto. L’aveva fatto diventare un posto monotono e triste. Non mi era rimasto più niente.

La mia fedina penale era piena di reati. Avevo il peso alle spalle di aver ucciso…Quante persone? Due o tre di cui un bambino. Sono sempre stato una persona pragmatica e solare, ma questi ultimi tempi hanno fatto proprio schifo. Guardavo le mie mani, e pensavo, ho sparato io a Matteo premendo il grilletto con queste mani. Guardavo le mie scarpe, e pensavo, ho spinto io il pedale per accelerare con queste scarpe e ho ucciso Oliver. E la cosa più brutta è che a volte mi sentivo anche sollevato ad aver ucciso della gente, questo per me è imperdonabile. Se non avessi preso sotto Oliver mi sarei andato a schiantare, se non avessi sparato a Matteo ora sarei in carcere.

Ora vi chiederete… Ma quale depravato mentale chiamerebbe un handicappato per un rapimento? Io non avevo esattamente questo ruolo, dovevo fare la sentinella. Il mio mestiere consisteva stare fuori a guardare se c’erano sbirri o quelli che vogliono prendere Jago. Quindi tutto sommato aveva anche senso.

Non è che passasse tanta gente in quel vicolo. Spacciavano, eroina, si grattavano continuamente a sangue per i suoi effetti. Facevano scommesse. Ad un tratto uno perse a poker, e si rifiutò di pagare. Gli andarono incontro tre ragazzini incappucciati, (sballati), e anche lì giù pugni e pugni. Mi allarmai. Stavano facendo rumore e il rumore richiamava i poliziotti. Poi cominciarono a girare coltelli, e una signora peruviana si affacciò al balcone. La prima di una lunga serie. Era grassa, e con occhiali con fondi di bottiglia. Urlò qualcosa in dialetto peruviano, e se anche non capivo niente contribuiva a urlare. Corsi subito da Matteo, dentro al capanno. Jago era morto per primo. Lo avevano gonfiato di botte a tal punto che non riuscii nemmeno più a respirare. Lo avevano legato alla sedia e lì da morto era rimasto. Freid ci era andato pesante, di tirapugni. Ovvero un polsino di cuoio o di ferro prolungato alla mano che a volte aveva sopra qualche chiodo.

Mi precipitai urlando:

“Sbirri. Fuori c’è una rissa, potrebbero arrivare.”

Parli del diavolo, e spuntano le corna. Erano arrivate tre auto con tanto di sirene accese. Sarei finito in carcere per colpa di tre mocciosi tossici e una grassa signora peruviana che urlava cose incomprensibili.

“In bagno. Mettete Jago in bagno.”

La sua testa penzolava a sinistra e faceva cadere la saliva sulla spalla di Michele. Fried si nascose in bagno con Jago dato che era sporco del suo sangue dalla testa ai piedi. Nascondemmo tutti le maschere. Eccetto io che non la portavo. Matteo si tolse quella di cavallo e Miky quella da piccione. Uscii per vedere la situazione. Uno sbirro aveva ammanettato e separato la vittima dai due tossici. La signora peruviana era scesa per raccontare ciò che aveva visto. Avevano delimitato la zona della rissa con un nastro bianco e rosso e avevano chiamato l’ambulanza. Un poliziotto mi chiese di fornirgli informazioni riguardo ai mocciosi.

Gli dissi che non avevo visto nulla. Altrimenti sarebbe stato “omissione di soccorso”, o qualche reato simile che sarebbe bastato per darmi l’ergastolo. Ma lo sbirro mi rivolse più domande perché quella gran stronza della vecchia peruviana aveva detto che io avevo assistito tutto il tempo alla lite.

Mi fece all’incirca domande del genere:

“Potrei entrare? Può mostrarmi i documenti?”

Allora intervenne Matteo che gli ricordò che per entrare in casa di qualcuno serve un mandato. Lo sbirro si insospettii ma non mi fece poi tante domande e alzò i tacchi.

E quando chiudemmo la porta, eravamo ancora sepolti a 40 metri sotto terra dai nostri problemi. Quelli della setta avevano detto che lo avrebbero lasciato vivo, e se quindi fosse riuscito a scappare ci avrebbe visto le facce. Per questo dovevamo tenere le maschere. Ma ora Jago è morto e noi lo saremmo stati con lui nel giro di qualche ora. Dopo un po’ gli sbirri se ne andarono. Quelli della setta sarebbero arrivati tra poco. Avevano delle nostre foto, i nostri nomi, sapevano dove abitavamo, avevano il nostro numero di telefono. Da quando avevamo catturato la preda eravamo tutti di umore molto variabile e spaventati. Ma ora avevamo raggiunto il picco della follia, non eravamo più in condizioni per pensare. Io entrai nel capanno, per tenere a bada la situazione. Scoprimmo che Jago era un bravo manipolatore, probabilmente si era inventato balle su balle o magari era anche tutto vero. Ci disse che la spilla rossa che portava Fried sulla sua giacchetta era in realtà un localizzatore. Ci rivelò anche che la setta viveva di ricatti, uccideva persone e poi diceva ai loro cari o famigliari di lavorare per loro se non volevano fare la stessa fine. E che probabilmente quelli che avevano ucciso mamma e papà avevano anche loro la spilla rossa. Non avevano tutti quella spilla ma attaccavano il localizzatore ovunque. Collane, bracciali, anelli, collane per la comunione. Riteneva che ci fosse un faraone o un sovrano a capo di tutto e che guidava la corruzione e la criminalità del mondo come burattini. Lui muoveva i fili.

Per Michele erano solo baggianate che si inventava al momento. Freid non sapeva cosa dire. Io ero fuori, e Matteo non riusciva ancora a comprendere quello che era successo.

Freid, disse che la spilla in effetti gli era stata data da loro. E che gli era stato detto di non toglierla.

A quel punto Matteo diventò una belva. Chi erano questi? Cos’avevano contro di noi? Perché stanno mandando a puttane la nostra vita? Ci stanno spiando?

Questo non lo sapeva nessuno.

Storia di una fuga parte V

Quel giorno ero seduto assieme a Matteo su uno dei tanti pagliai di Marina di Ragusa.

Avevamo la vista sulla collina a nord. Quella dove abitava “Marino”. Era un vecchio che aveva il cognome uguale al nome. Perché i suoi genitori avevano avuto la fantastica idea di chiamarlo:

Marino Marino.

E ogni volta che qualcuno lo chiamava, si sentiva quell’assordante ripetizione tra i colli della Sicilia. Marino era rimasto vedovo a 60 anni. Da allora la sua routine prevedeva il catturare bambini ebrei che si aggiravano nei parchi di Ragusa e Capo Passero. A quel tempo avevo 22 anni.

Marino aveva trovato una ragazza tra i 12 e i 14 anni. E la aveva chiusa in auto.

Eravamo alla fine della guerra, dalla parte degli Americani. Marino si pagava la pensione rivendendo i bambini ebrei agli SS o al GESTAPO. Anche se il GESTAPO poteva benissimo catturare i bambini ebrei senza di lui. In Italia i nazisti non potevano più intervenire, Mussolini era morto e pian piano i partigiani avevano spinto i tedeschi fuori dall’Italia.

“Io farei fuori quel vecchio.” Disse Matteo.

“Perché?” Chiesi.

“Merita di morire. Uccide donne e bambini ebrei solo per divertimento.”

Gli davo ragione. Ho sempre odiato quel vecchio, era una persona violenta e guadagnava soldi uccidendo persone innocenti. Era come uno dei “cacciatori di taglie” di Ragusa, ma non faceva giustizia. Nonostante Matteo non avesse studiato molto nel corso della sua vita condividevamo le stesse idee politiche. Uno dei temi che gli stavano più a cuore era la “solidarietà”. Malgrado ciò, in guerra in Russia, ci arrivò. Perché le idee politiche di Musso e delle sue compagnie fasciste avevano avuto la meglio sulle mie.

Quella volta, appunto, gli SS non potevano più pagarlo così volle uccidere la ragazza per puro divertimento. Penso che se non fossi intervenuto mi sarei sentito ancora più in colpa.

Anche Matteo si era guadagnato un soprannome nella malavita. “Garibaldi”. Perché riuniva le varie organizzazioni di “cosa nostra” del “Libero consorzio comunale di Ragusa”. Aveva molte amicizie in tutte le province di essa. Anche se il suo mestiere non era unificare le organizzazioni, ma spiarle. Faceva il giro di tutte le province quattro volte alla settimana e spesso impiegava tutto il giorno.

E ora Garibaldi aveva deciso che la vita di Marino era durata fin troppo.

Fu allora che vidi quella maschera. Il cavallo. Maschere talmente inquietanti che sarebbe bastato solo che il vecchio ci guardasse per farlo morire di infarto. La prese dal suo zaino nello stesso modo in cui lo fece 20 anni dopo con Fried e me medesimo.

Quando Matteo tirava fuori quella maschera significava che Thànatos (il Dio Greco della morte) era venuto sulla terra per un motivo. Fried ci aveva infatti parlato di un rapimento.

Diceva che degli uomini avevano fatto irruzione in casa sua e gli avevano chiesto di recarsi presso un palazzo della periferia di Monaco. Gli avevano fatto delle foto, e gli avevano chiesto se ne aveva delle nostre in casa. Ce le aveva ma aveva cercato di negarlo il più possibile. Finché non lo hanno scoperto e lo hanno pestato fino a farlo diventare viola come uno di quegli alieni di Avatar. Ora era senza un dente. Poi ci raccontò che durante il tragitto aveva sbattuto contro un palo, così adesso oltre al dente rotto aveva anche l’occhio nero.

Papà era una persona innocua, mai avrebbe fatto del male a qualcuno. Forse mi ha tenuto all’oscuro di molte cose. Volevo vendicarlo e ottenere giustizia ma questa volta non si trattava di un uomo solo, bensì di una SETTA. Una setta di persone che volevano vedere bruciare la famiglia Bongiorno.

Si trattava di una banca di Dallas. Ma non era la banca che ci interessava: era un dipendente che nascondeva qualcosa alla setta.

Erano le 11:59. Fried ci stava parlando della rapina fin quando non bussarono alla porta. Dopo quello che ci raccontò il coccodrillo ci allarmammo. Matteo impugnò la pistola prima di aprire. Spaventato mise il chiavistello e con una vocetta da colibrì sussurrò:

“Chi è?”

L’uomo che aveva bussato si precipitò sulla porta barcollando. Era Michele, ubriaco con la camicia strappata. Era tornato ora dalla “festicciola”.

“Mi hai fatto pigliare un colpo!”

Matteo tolse il chiavistello e aprì la porta a Michele che essendo appoggiato a quest’ultima cadde sull’ingresso.

Mi avvicinai a lui spingendomi sulla sedia a rotelle.

“Sei stato fuori tutta la notte, eravamo preoccupati.” Dissi.

Non era abbastanza sobrio per rispondere. Non aveva neanche la forza di alzarsi, di conseguenza si era appisolato sul pavimento con la bava alla bocca. Si vedeva che non aveva dormito. Fried rimase immobile a sorseggiare il suo caffè.

Gli diedi un’ultima occhiata e poi mi concentrai sulle parole di Fried. In verità nessuno si curò di lui, eravamo tutti e tre troppo impegnati per occuparci di un tale buffone. Avevamo tante cose di cui parlare ma non so perché quando cercavamo di discutere si creava sempre un’atmosfera di silenzio di tomba.

Mi guardai in giro e pensai: dove sono finito? Ora mi immaginavo io in sedia a rotelle sul quel tavolino di legno e nessun altro. La barba era diventata più lunga e più bianca. Avevo molti meno capelli, anzi se non fosse stato per quel minimo peletto che avevo esattamente in centro alla testa mi sarei potuto definire “calvo”. Ho visto per un attimo tutti i bei momenti della mia vita passarmi davanti come la pellicola di un film. Ero diventato più cinico, più freddo, più triste. Ero all’oblio, ancora in quel tavolo e ancora in sedia a rotelle. Era buio pesto o buio ragù non mi ricordo molto bene. Ad un tratto si accese una luce, era fredda e mi ricordava la lampada della mia camera d’ospedale. Una volta un’infermiera mi aveva spento la luce sul comodino ed era saltata fuori una falena. Ma una grande, con ali grandi di almeno sei centimetri. Volò fuori dalla finestra aperta a vasistas e mi venne il terrore che rientrasse. Quanto disgusto provavo per gli insetti.

Dalla luce accesa c’erano moltissime statue di persone che conoscevo. Come Pompei. Erano tutti pietrificati. Tra di loro c’erano anche Fried e Michele. La luce non illuminava tutti, alla fine del tunnel c’era qualcuno di vivo. La cosa strana è che non sentii la necessità di andare a vedere chi ci fosse alla fine. Rimanevo fermo lì. Allora capii una cosa che non avevo mai concepito prima…

Non era stato il coma o i domiciliari a farmi sentire solo. La verità è che io lo ero sempre stato, e non c’era alcol o droga che poteva nasconderlo. Il crack ti faceva sballare e divertire, ma non riempiva quel sentimento di solitudine che ho sempre avuto…

E un giorno, non molto lontano, mi volterò e mi renderò conto che: mi amano tutti, ma non piaccio a nessuno. E questa è la sensazione di solitudine peggiore.

CIT. BOJACK HORSEMAN.

Solitudine non vuol dire stare da soli, ma vuol dire sentirsi soli. Questa è la tristissima verità che cercavo di negare. Avevo tolto il dente più cariato tra tutti. Dovevo farmi una vita nuova. Scoprirò chi ha ucciso mamma e papà e poi la finirò qui. Questo mi ero promesso.

“Francesco?” Matteo mi chiamò un paio di volte ma non avevo risposto. Per quindici secondi ero ritornato in coma con gli occhi aperti.

“Sì scusa, cosa stavi dicendo?”

“Di Jago Foster” Disse Freid.

“Chi è?” Chiesi.

“E’ il dipendente che la setta ha detto rapire. Sappiamo solo dove lavora, ma non siamo obbligati ad andare in banca per prenderlo.”

“E cosa dovremmo fare una volta che lo abbiamo catturato?” Domandò Matteo.

“Nulla. Ci hanno indicato un capannone abbandonato, una volta preso Jago lo leghiamo e aspettiamo l’arrivo di quelli della setta. Semplice.”

“Dovremmo andare a controllare se questo capanno è accessibile prima di trovarci sprovvisti all’ultimo momento. Magari è una truffa…” Proposi io.

“Lo ho già fatto prima di venire a trovarvi. Le chiavi che mi hanno consegnato aprono la porta laterale del capanno per non farci vedere.”

Non ero convinto, si trattava di un sequestro di persona, era un reato grave. Il fatto è che non avevamo il lusso di rifiutare. Se non avessimo partecipato ci avrebbero uccisi come si fa con le formiche che in fila indiana vanno al formicaio. Fried aveva detto che erano in troppi, ci avrebbero trovato se non avessimo fatto quanto detto. Eravamo tutti un po’ confusi. Non era certo una scelta facile.

Ma nonostante l’indecisione avevamo ristretto i fatti a due scenari possibili:

A: noi accettiamo il lavoro e quando andiamo a pigliare Jago troviamo la banca colma di sbirri che si ammassano fra di loro per arrestarci. Ma una cosa gigantesca, sembra che tutta la polizia del Pentagono si sia spostata per venire in una piccola e insignificante banca di Dallas. Tutto il parcheggio pieno uomini in divisa, e lì il nostro scenario cade nella depressione. Matteo viene arrestato e pure Fried, io sprofondo nel pensiero di aver abbandonato i miei amici e mi butto giù dal balcone del tribunale. Però non muoio e subisco un trauma cranico che mi riporta di nuovo in coma. Risultato: ho perso i miei amici e altri anni di vita.

B: ce ne freghiamo e andiamo a denunciare il tutto. Però dopo un po’ quelli della setta ci trovano e ci ammazzano.

Quindi, visto che entrambi gli scenari sono brevi e non molto allegri abbiamo suddiviso quello che ci sembrava più sensato in altri due scenari:

primo scenario dello scenario A… Siamo ottimisti e crediamo non sia una truffa. Invece è una truffa e questo scenario si conclude come il primo.

secondo scenario dello scenario A… Siamo pessimisti e crediamo che sia una truffa, e invece non lo è. Rapiamo Jago e lo portiamo al capanno.

Non sapevo cosa fare. Io faccio sempre così: mi faccio coinvolgere da tristezze insignificanti come il finire un pacchetto di “Oreo”, e invece quando si tratta di una setta che vuole vedere morire me e i miei genitori appesi a una croce a testa in giù che neanche San Pietro, io me ne frego. La cosa era seria, si trattava di un sequestro di persona e quelli della setta poi chissà cosa gli avrebbero fatto. Ora però dovevo scegliere: Io o lui? Non erano più scelte come: panettone o pandoro o Milan o Juve. Una delle due avrebbe comportato lo scacco matto di me o di Jago.

Storia di una fuga parte IV

Mi svegliai. Avevo dormito in Jeans e in camicia. Un pacchetto di Oreo secchi a colazione. Un pasto leggermente più degno della cena e del pranzo del giorno precedente. Anche se ogni biscotto che mangiavo mi sentivo sempre più triste. Erano le dieci in punto. Il cielo aveva un colore noce pesca, e un contadino di Marzipan Lake era riuscito a cadere da una insignificante collinetta e di conseguenza a fare un tuffo nella gelida acqua del lago. (-2 gradi).

Matteo aveva le scarpe sul tavolo, entrambe, più una Chesterfield accesa in bocca. E Michele era andato a festeggiare alle 8 di sera e alle 10 del mattino non era ancora rientrato a casa.

“Matteo dove siamo?”

“Cioè fammi capire saremo qui da ormai una giornata e ora ti sei posto la domanda: dove siamo?”

“Ieri hanno tentato di uccidermi ero più occupato a mettermi in salvo.”

“Dallas.”

“Hai guidato fino a Dallas?”

“Qualcuno doveva pure salvarti.”

Ora erano le 10:01. Avevo tante domande da fare a mio fratello ma non avevo voglia di farle. Volevo solo sfondarmi di Oreo fino a che non mi sarebbe caduto l’intestino. Come Oliver. Quella notte lo avevo sognato, mentre correva trascinando le sue viscere in giro per la moquette rotolando fra i frammenti di vetro del tergicristallo della mia auto.

“Matteo, potrei chiederti una cosa?”

Scocciato buttò la Chesterfield, anche perché si accorse di non aver voglia di fumare.

“Dimmi.”

“Ti sei fatto una più minima idea, di chi sia l’assassino di papà e mamma?” Chiesi sporgendomi con il gomito sul tavolo.

“Non lo so. Mamma era vecchia e anche papà, se non fossero morti per omicidio sarebbero morti l’anno dopo. Infatti quando mamma è morta, e abbiamo aspettato la diagnosi, mi sono sorpreso quando il medico ha detto che era morta per strangolamento. La cosa è diventata più pericolosa quando è deceduto anche papà e zio Tony a Capo Passero a colpi di rivoltella. So però una cosa! Papà aveva corrotto degli Sbirri che gestivano lo spaccio di stupefacenti via postale a Capo Passero. Avevano, appunto, lo scopo di gestire questa rete illecita di droghe. E so che un periodo circolavano stupefacenti da tutto il mondo, e può darsi che si fosse fatto qui alcune inimicizie.”

Questo lo sapevamo entrambi. Ma di quell’ufficio postale, la capitale della corruzione e della criminalità di capo Passero, ne erano rimaste solo le ceneri.

“Di quell’ufficio non ne è rimasto nulla.”

“Perché?” Mi chiese Matteo.

“E’ andato in fiamme da ormai 25 anni.” Dissi mangiando l’ultimo Oreo del pacchetto a microscopici morsi. Non potevo muovere le braccia e le gambe per mangiare. Così per prenderlo lo afferravo con i denti e poi lo mangiavo. “Che facciamo?” Chiesi.

“Ho ricevuto una lettera la settimana scorsa. Da cuccudrigghiu.”

Friedemun, soprannominato da noi “cuccudrigghiu” (coccodrillo) era un nostro fedele amico. Fried era il fratello del figlio della sorella di una ragazza che una volta venne al 94° compleanno dell’amico del fratello di mio nonno. Non so per mia madre, ma per me era molto più facile associare la sua faccia anche a una parola lunga come coccodrillo, piuttosto che…

Il fratello del figlio della sorella di una ragazza che una volta venne al 94° compleanno dell’amico del fratello di mio nonno. Stessa cosa per Matteo che a 30 e passa anni era ancora in dubbio su quante “c” avesse la parola “coccodrillo”. Ovviamente non lo chiamavamo veramente “coccodrillo”. Erano soprannomi che ti guadagnavi nel lavoro, per quanto sanguinario eri o per il tuo modo di fare.

Matteo tirò fuori la lettera dalla tasca.

“MONACO DI BAVIERA, 2/ 7/ 1960.

Ciao Matteo. Sono Friedemun, ovviamente entrambi ci siamo accorti che l’assassinio del signore e signora Bongiorno non sono stati una coincidenza. Voglio venire Dallas 10 luglio. Ci incontriamo via Truman 12, busserò alla porta alle 10:25 di mattino. Porta anche Francesco. Ti spiego tutto al mio arrivo. Ti lascio mio numero di telefono.

+49 704 442 103

Cordiali saluti. Friedemun Osmund Wagner.

(Fried non parlava bene italiano perché di origine tedesca).

“Questo è il motivo per cui siamo qui!” Fa Matteo.

“Quando dovrebbe arrivare?” Chiesi.

“Tra circa 10 secondi.” Disse guardando l’orologio verde lime appeso sopra la porta della cucina.

Quaranta orologi svizzeri non sarebbero bastati per descrivere Fried. E’ arrivato esattamente alle 10: 25.

Bussò due volte precise, si fermò per qualche secondo sull’uscio della porta. Indeciso se entrare o meno. Poi girò la testa e si guardò le spalle per controllare di non essere seguito. Gli sembrò essere tutto sicuro, così entrò.

Fried era un uomo non particolarmente alto ma neanche “basso”. Si poteva collocare sulla metà. Aveva una cravatta verde lime (come l’orologio), che teneva sopra la camicia bianca. Occhiali da sole per coprire l’occhio nero. La bocca chiusa per nascondere il dente che gli mancava. E la barba per coprire la sua insignificante fossetta sul mento. Orologio con il laccio fatto di pelle di coccodrillo e per concludere con classe: aveva una spilla rossa sulla giacca.

C’era un motivo se lo chiamavamo coccodrillo e non era dovuto al fatto che vestiva con pelle di quest’ultimo. La verità è dura da raccontare. Ed è anche difficile ammettere, perché tutti i membri di quella cosa che i giornalisti chiamano “mafia”, hanno fatto quasi tutti cose orribili. E non si sono certo guadagnati il loro soprannome facendo cose semplici come: vestirsi con pelle di coccodrillo. Si racconta che Fried fosse andato in Africa a vendicarsi con un cliente che non aveva pagato mio padre. Ha fatto sbranare suo figlio dai coccodrilli e ha dato fuoco a casa sua. Questo ci raccontava a Palermo. Fried era più grande di noi. Quando lui aveva 18 anni io e Matteo ne avevamo sui 5. Essendo più grande, lui ci raccontava le sue imprese come se fosse un supereroe. Ho scoperto la verità crescendo. Ho scoperto anche che il padre del bambino mangiato dai coccodrilli era ricco sfondato. Per cui Fried, che non era stupido, prendeva i soldi del padre del bambino morto e poi si presentava da noi con i regali di babbo natale.

Nel lavoro che faceva Musso (e anche mio padre) ho capito molte cose sulla “mafia”. Musso si faceva circondare da servi. E da queste persone che ho soprannominato “cacciatori di taglie”, erano per lo più veterani in declino o gente ai margini della società che era disposta a sporcarsi le mani in cambio di qualche lira. Questo era Fried. Il capo dei capi dei cacciatori di taglie di Marina di Ragusa. Musso lo manteneva dandogli prede da cacciare e lui ritornava sempre vincente. Tutta Ragusa lo rispettava, questo è ciò che mi ricordo.

Quando entrò, poggiò la giacca su una delle sedie e ci salutò. Non avevo confidenza con lui, perché era appunto più grande di noi e di conseguenza lo avevo conosciuto tardi. Nei suoi occhi intravedevo la pietà e la sofferenza di tutte quelle persone che aveva ucciso.

Era molto più pericoloso di quanto appariva agli occhi della gente.

Storia di una fuga parte II

Anche questo racconto è in fase di modifica, quindi non sorprenderti se non c’è coerenza nel testo tu che leggi.

Grazie.

 

Tra l’inspiegabile silenzio ne approfittò per entrare il dottore.

“Buongiorno.” Disse lui.

“Buongiorno a lei.” Ricambiò Matteo.

Non riposi.

“La porterò in piscina per ricominciare a muoversi. Dove avrà modo di parlare con l’infermiera.”

Non riuscivo a parlare e se anche avessi potuto non lo avrei fatto. Avevo solo l’irrefrenabile bisogno di fumare una sigaretta.

“Potrei chiederle cortesemente se prima può accendermi una sigaretta?” Chiesi al dottore.

“Mi scusi ma non fumo.” Rispose.

“Io ne ho una.” disse Matteo alzandosi.  

Il dottore si fece passare la sigaretta da Matteo per poi accendermela. La prese con la sinistra rivelando la mano prima coperta con la manica. Tre cose mi colpirono: la prima che non portava più la fede e la seconda che era diventato mancino. E infine la terza che il dottore aveva anche smesso di fumare dall’ultima volta che lo avevo visto, quindi tre mesi fa.

Cercavo di non piangere, mi sembrava ancora impossibile che i miei genitori fossero morti. Mi sembrava ancora troppo strano che dopo tre mesi di coma e lavaggio gastrico l’unica persona che si fosse degnata di venirmi a trovare fosse stata mio fratello solo per portarmi la triste notizia della morte di entrambi i miei genitori. In tre giorni ho avuto modo di controllare: nulla…nessuna lettera, nessuno di quei biglietti o fiori con scritte frasi positive. Mi sembrava anche una giornata felice, il tempo era buono, ero ansioso della visita. Invece no: quel giorno il tempo ingannava, e quell’unica nuvola che è in cielo si prolungherà proprio su di te, Francesco, appena uscirai dall’ospedale comincerà a pioverti in testa come quella di Fantozzi.

Anche se…se fosse successo non mi sarei sorpreso.  

“Dottore? Potrebbe dire all’infermiera che mi recherò lì tra poco?” Chiesi

“Si, certo.” Rispose.

“Vedo che qui vivi nel lusso. Come sei organizzato?” Mi assecondò Matteo.

“Questo corridoio è tutto mio, compresa la piscina sotto. Dall’altra parte ci stanno i pazienti che hanno pagato solo le loro cure.”

Fece cenno di aver capito. E poi rimase in silenzio a osservare tutta la mia ricchezza.

“Di cosa sono morti mamma e papà?” Chiesi io qualche secondo dopo.

“Non vorrei dirtelo o ti rovinerebbe la giornata.” Rispose.

Stavo per rispondergli, ma uno scoppio netto e improvviso mi fermò. Una diga straripata, un palloncino esploso, un masso nell’acqua. Un proiettile aveva trafitto il vetro della finestra e penetrato il cuscino del letto. Ma non mi aveva colpito.

Matteo corse verso di me portandomi fuori dalla stanza, trainandomi per il braccio e afferrando la sedia a rotelle. 

I muri del corridoio erano alti e spogli con qualche macchia di vernice colorata. C’era solo un uomo che, perplesso, sostava davanti all’uscita, un uomo verso i trentacinque anni. Portava un pullover color latte di cocco che teneva sopra la camicia a quadretti rosso ciliegia. Sembrava avesse qualche forma di autismo, era lì da solo che ci guardava. Non si era nemmeno spaventato dallo sparo.

Poteva aver sentito il dialogo tra me e Matteo e sapere che eravamo imparentati con il Signor Musso.

La porta era già aperta, una volta solcata quella soglia scomparimmo nel nulla.

L’auto era una Porche, rossa e con qualche graffio. Non ricordo esattamente che modello… penso una 356.

“Abbassati, così non ti vede.” Disse Matteo

Aveva le mani nei fianchi, come se avesse perso qualcosa. Si guardò intorno e cominciò a pensare alle chiavi dell’auto. Poi si ricordò della giacca, guardò nel primo taschino a sinistra di esso ma non vi erano. E successivamente infilò le mani nell’altro taschino e ne uscì vincente. Salimmo in auto. O almeno lui riuscì da solo e mi aiutò posandomi sul sedile posteriore. Ci fu un attimo di silenzio come nei funerali, la brezza che entrava dal finestrino mi accarezzava i capelli e portava con se qualche spiga di grano e polvere che si posava sul mio naso e cadeva per terra. Poi quell’attimo finì interrotto dal rumore assordante dell’auto appena accesa. C’era solo quel ragazzo autistico che continuava a fissarci dubbioso. Avrei potuto dirlo a Matteo, ma evitai, poiché ero certo che sicuramente lo avrebbe fucilato come un cane in strada. Ma non ce la facevo a vedere un altro cadavere.

Quando partimmo, la strada si rivelò essere molto ripetitiva. Era una lunga distesa di campi di grano e erba secca. Non c’era neanche un albero che poteva resistere ai raggi del sole battente e allo smog. E nemmeno un fiore riusciva a crescere. Ci capitava ogni tanto di imbatterci in un palazzo diroccato dove un po’ di ombra c’era, ma quasi nulla. Non era caldo era…afa, che ci faceva soffocare per avere un filo di ossigeno. Questi sentieri mi ricordavano i paesini Italiani sperduti in mezzo al nulla più assoluto.  

Alla prima rotatoria c’era scritto: “Marzipan Lake”. Era la prima rotatoria che facevamo da quando eravamo partiti e per il resto era una strada dritta con qualche curva. Ero stanco e per questo anche taciturno. 

Matteo parcheggiò a fianco a una vecchia casa.

Sorgeva al centro di uno spiazzo di terra brulla coperto da rami e foglie secche. Crepe profonde attraversavano i muri. Una scia di buganvillee, era cresciuta arrampicandosi come edera sul parapetto del terrazzo. Di vivente c’era solo un’albero. Piccolo e nano, che era sorto a un metro di distanza dal palo arrugginito dietro alla finestra del salotto. E inoltre vicino a dove avevamo parcheggiato, cioè davanti alla casa, c’erano tre bidoni della differenziata: l’umido, la plastica e il vetro. Il vetro era pieno di barattoli di conserve e bottiglie vecchie di vino sparse perfino per terra. La plastica invece era piena di confezioni di acqua aromatizzata alla ciliegia da due litri e l’umido riempito fino all’orlo di pattume vario. Nessuno passava mai per di lì e il proprietario della casa viveva tra l’immondizia. E del resto doveva fare molta strada per arrivare al cestino poiché tra la casa e esso vi era un gigantesco campo di grano alternato con dell’erba alta e gialla.

Matteo aprì lo sportello dell’auto.

“Dove siamo?” Chiesi con le mie poche forze.

“Al sicuro non preoccuparti…”

Storia di una fuga parte I

Questo racconto è ancora in fase di modifica

PROLOGO

1 aprile 1940

“Buongiorno mamma,

sa qui sta cominciando a piacermi. Mi hanno fatto una proposta mesi fa. Mi hanno riferito che stanno cercando di vendere una vecchia catapecchia. Non poco distante da qui…Sarà forse qualche miglia. Girano voci che appartenesse a un ricco schiavista dell’800. Sono andato a vederla, sembra in ottime condizioni: acquistarla sarebbe un affare. A quanto pare il proprietario possedeva un enorme distesa di campi di cotone fino all’orizzonte. Ora invece ciò che è rimasto di quella villa è andato perduto dopo un incendio. Che alcuni ritengono doloso. E’ rimasto poco di quella che era la villa. Solo alcune sale, qualche stanza. E un gigantesco salice piangente. Dai rami spessi e sparsi di resina a macchie. Le sue radici dalla forma circolare si aprono tra le acque e il terreno a semicerchi: come fossero delfini. Quell’albero mi piace soprattutto per la primavera che nasce in lui. Anche alcuni parti della villa sono rimaste intatte e sicure. La ho già acquistata, e ristrutturata. All’ingresso abbiamo aperto il bar, e il ristorante dietro. Poi la sala che ha trentasei tavoli. D’estate abbiamo messo dei tavoli sotto il salice, la rugiada passa da foglia a foglia fino a cadere sul terreno e inumidirlo. I clienti lo adorano. Sono successe tante cose dal mio arrivo in America, avrebbe dovuto esserci.

Mi saluti papà…

Mi saluti Ragusa…”

12 gennaio 1955

“Buongiorno mamma,

sa… E’ arrivato l’inverno qui nel Mississippi, c’è un vento forte che soffia. Alcuni paesani ritengono che provenga dalla Groenlandia. Dice che più siamo distanti da essa meno freddo c’è. Proprio qualche giorno fa abbiamo inaugurato la parte dell’edificio abbandonata che ora è diventata un’hotel. Abbiamo festeggiato con il maritarsi di una ragazza appartenente a una confraternita protestante che frequenta uno dei miei migliori clienti. E’ stato un matrimonio…particolare. Abbiamo assunto un cantautore nero, ma nessuno ha fatto più di tante prediche. Diceva di chiamarsi Jimi… Jimi Hendrix. Mi disse che lui improvvisava nel suo genere musicale. Mi fece alcune domande sullo sposo. Gli dissi che si chiamava Joe e che non sapevo di più. Ne rimasi impressionato dalla velocità in cui componeva i suoi accordi. Aveva improvvisato la canzone che aveva intitolato Hey Joe. Non era del tutto sobrio e forse anche impasticcato. Il giorno dopo i clienti sembravano moltiplicarsi. E oggi sono fiero di dirle che il mio agriturismo da un angusto locale di provincia, oggi ospita la borghesia di tutta la regione. I nostri chef sono ricercati in tutta America. Spero che sarà fiera di me.

22 aprile 1956

“Buongiorno mamma,

questa volta le scrivo questa lettera affinché lei mi possa aiutare in qualche modo. E’ successa una cosa molto brutta, ho ucciso un uomo. Un bambino, l’ho investito con la mia auto. Ero ubriaco fradicio ed ero oltre al limite di velocità. Si chiamava Oliver. Gli ho aperto il ventre, aveva l’intestino cadente, mentre disperatamente invocava la madre. Stavo tornando a casa dal ristorante. Era ancora vivo quando è accaduto, ma sono svenuto da quanto ubriaco ero. E nel frattempo è deceduto. Il processo si terrà martedì. So che non legge le mie lettere, ma scrivere mi da in qualche modo l’illusione che lei mi stia ascoltando…”

4 marzo 1958

“Buongiorno mamma,

non mi posso lamentare, mi hanno dato tre anni di arresti domiciliari. Qui sto impazzendo, ho ricominciato a bere e a fumare. La mia astemia è durata meno di un mese. La prego mi scriva una lettera e mi dia un motivo per cui essere felice. “

30 ottobre 1960. Ospedale di Jersei.

“Buongiorno signora,

sono il medico di suo figlio. Mi è stato comunicato che a lui piaceva scriverle qualche volta. Questa lettera non appartiene all’ospedale, sono io che le scrivo per informarla dell’accaduto, poiché non sarebbe possibile scriverle una lettera a scopo commerciale: da qui leggo che lei è deceduta da ormai qualche mese. Io non la conosco, non so che genere di persona fosse. E non so come avrebbe preso questo avvenimento. Suo figlio Francesco è finito in uno stato di degrado mentale durante il suo arresto. Beveva troppo e aveva cominciato a parlare da solo. I suoi vicini dicono che passasse ore e ore a parlare con se stesso da ubriaco. Il suo psicologo gli ha prescritto dei farmaci e sottoposto a droghe medicinali. E’ finito in coma…coma etilico da ormai un mese…

Condoglianze e cordiali saluti.

Dottoressa Barbara Smith.”

PARTE I

Mi bruciavano gli occhi. Sbattei le palpebre, le sbattei nuovamente. Le mie ciglia si erano appiccicate fra loro come sabbia sporca. Con la gola secca sembrava che il pomo si fosse bloccato. Non ero mai stato più contento di contemplare una camera di ospedale. Questo è sicuro. Mi chiedevo se anche la pupilla potesse abbronzarsi. Se così fosse, la mia sarebbe pallida e fragile come un albero spoglio. Mi era cresciuta la barba nel frattempo, era da tempo che aspettavo che crescesse, dalla seconda superiore. Mi sentivo in qualche modo bloccato da qualcosa di mastodontico ma allo stesso tempo invisibile all’occhio. Un qualcosa che mi paralizzava, dalle semplici dimensioni di una coperta. Mi ero già svegliato da tre giorni ormai, e mi ci ero un po’ abituato a starmene in branda a girarmi i pollici.

Si sentirono passi che rimbombavano in tutto il corridoio, poiché esso era vuoto. Nemmeno una voce si udiva. Era un uomo giovane sui trentacinque anni che sembrò apparentemente trovare un sentimento di felicità sapendo di trovarmi. Mi sembrava un viso già incontrato, anzi di quelli che si ricordano per sempre ma non si rivedono per lungo tempo. I suoi mocassini facevano un rumore ritmico sul pavimento. Un rumore simile al ticchettio di un orologio. Era italiano, si vedeva e si sentiva, si notava dalle sue espressioni. E il suo alito da Cus Cus di pesce che galleggiava nella stanza metteva inoltre in risalto le sue origini Palermitane. Era vestito in giacca, con una fila di scintillanti bottoni d’ottone sulla giacca che brillavano ai raggi del sole e apparivano tagliatelle distese in lungo. La fragilità della mia pelle era sensibile alla luce che filtrava dalla tapparella. L’adrenalina mi saliva come quando si finisce quasi per realizzare una scala a scala quaranta. Un nodo alla gola mi portava a conoscere quell’uomo con tale ansia.

Entrò fiero di vedermi. Fumando una sigaro. Uno di quei sigari giganteschi da ricconi tipici degli anni ’20 in stile “Grande Gatsby“. Il suo sorriso mi ricordava un po’ il signor Musso, il capo dei capi della nostra cosca a Palermo. E per lo più nostro “vicino di casa.” Era in controluce e ciò accentuava la sua inconfutabile maestosità. Un Dio dell’Olimpo. Un eroe di guerra. Un nuovo personaggio di qualche film di Sergio Leone.

“Ti ricordi di me?” Disse lui una volta solcata la soglia della porta. Si atteggiava con viso coperto tentando futilmente di rimanere un’ignota sagoma misteriosa ai passanti.

Non ebbi le forze di rispondere.

“Non ci vediamo da molto tempo.” Aggiunse.

Un’atmosfera densa comportava il mio imbarazzo nel rivedere un caro conoscente di cui non ricordavo il nome. Appoggiò il sigaro nel portacenere facendomi notare l’anello che portava sul dito indice. Un anello di rame con raffigurazioni che trovai piuttosto macabre e grottesche. Un lupo con occhi ovali e dilatati, anormali. Il sangue alla bocca e le unghie scattanti pronte ad attaccare in ogni momento. Avevo sicuramene già visto quell’anello. E ogni volta che mi concentravo con il mio cervello non riuscivo a smettere di pensare al signor Musso. In effetti portava anche lui un anello. Anzi ne portava due, tutti e due nello steso dito: uno incastonato di mattonelle azzurro perlaceo e l’altro di…di…rame. E lo portava sull’indice.

Il sig. Musso morì che io avevo dieci anni e aveva un figlio. Si chiamava Matteo. Io e suo figlio ci conoscevamo bene in gioventù, era stato educato e cresciuto per lo più dai miei genitori, perché Musso, uno dei padrini più importanti delle provincie a sud di Palermo aveva di meglio da fare che crescere un bambino. Avevamo vissuto entrambi a Marina di Ragusa una delle spiagge più basse d’Italia dopo la Pantelleria e l’isola delle Correnti che affiancava Portopalo di capo Passero a est della Sicilia; dove abitava zio Tony.

“Vedo che dopo tutto sei venuto.” Gli risposi.

“Dovevo… Non potevo lasciarti in declino con solo qualche birra come famiglia.”

Si soffermò prima di iniziare una frase. Probabilmente si era preparato un discorso ma era troppo per lui ricordare anche solo l’iniziale del suo nome.

Il suo sorriso nascondeva qualcosa di subdolo e altrettanto macabro e violento.

Matteo si sedette su una sedia di plastica rossa che giaceva in fondo alla stanza.

“A cosa devo la visita?” Dissi.

“Io…sono qui per due motivi. Il primo è che vorrei scusarmi con te, perché dopo che te ne sei andato…Io in guerra ci sono andato veramente. E avremmo potuto forse gestire meglio il futuro se avessimo entrambi collaborato. Anzi avremmo potuto sicuramente.”

Non avevo parole.

“Io non pensavo, se avessi saputo ti avrei prestato qualche soldo…” Dissi addolorato.

Matteo mi ignorò.

Tra le chiacchiere e discussioni si udirono in lontananza altri passi. Passi che non si atteggiavano ritmicamente come quelli di Matteo, passi frettolosi che non avevano tempo per il galateo. Era un dottore, il classico uomo tedesco amato dalla Germania nazista. Biondo e con gli occhi azzurri. Si atteggiava da superiore con spalle larghe, un po’ snob apparentemente, era anziano sui settant’anni.

“Non c’è un modo meno atroce di dirlo” .Cominciò Matteo. “Quindi sarò esplicito con te. Io sospetto che quando nonno era ancora vivo papà si fosse fatto qualche “inimicizia.”

Ero perplesso.

“Ma i fatti sono i fatti e questo è quello che è accaduto”. Prese un respiro profondo e mi annunciò:

“Papà, mamma e zio Tony sono deceduti. Prima che tu possa dirmi qualcosa, voglio dirti che per me è stato difficile quanto lo sarà adesso per te, e ti sono vicino. Ma il dilemma è che anche noi siamo parte della famiglia e che forse anche noi siamo in pericolo.”

Non mi abbattei subito quando me lo disse, mi ci vollero due minuti per realizzare che i miei genitori erano morti. Li pensavo immortali ma, per quanto fossero impeccabili, restavano sempre esseri umani.

Il mio istinto mi suggerii di volgere altrove lo sguardo per esempio sul cielo. Per cui decisi di dare un’occhiata. Delimitava la camera d’ospedale una gigantesca finestra, grande dal pavimento fino al soffitto. Sollevai una tapparella con l’unghia del mignolo che riuscivo a malapena muovere. Un arcipelago spumeggiante di nuvole scarlatte ostacolava la vista dell’orizzonte soleggiato. Non era ancora una fase di mezzogiorno, solo prima mattina. Palazzi alti per miglia e miglia si intravedevano .E una ciminiera che buttava fuori qualche nube di fumo scura in lontananza si presentava alla vista dei miei occhi.

E con solo le palpebre che potevo muovere sussurrai affranto:

“Mamma”.

Un abituale racconto di mafia

Era giovedì, il Padrino si aggirava nei sentieri più bui della campagna. Lo chiamavamo così dopo aver visto il film “Il Padrino” con tutto il dormitorio, perché assomigliava ad Al Pacino. Trascinava la sua enorme accetta per la legna per terra come un peso morto. La vittima era un tale di nome Ciro, legato ad una sedia da giardino. A quel punto il Padrino afferrò la mano di Ciro e la sbatté sul vecchio tavolo davanti di legno di betulla, sollevò la sua accetta e con tutta la forza scagliò sulla mano di Ciro tutta la sua violenza e rabbia. Sì sentì un insopportabile gemito di dolore che rimbombò in tutta la campagna. Sgorgava sangue ovunque e Ciro cadde per terra morente, il Padrino lo guardò negli occhi con il suo sguardo freddo, gli occhiali da sole che indossava deviavano i raggi di luce. Successivamente riprese la sua accetta con il suo muscoloso braccio sinistro e incatenò l’altra mano di Ciro. Quando la tagliò l’accetta rimase incastrata nel tavolo, il povero Ciro assomigliava a un manichino gonfiabile che correva disperato in cerca di aiuto.Il Padrino tutto contento gli tirò il collo sbattendoli la testa contro lo spigolo del tavolo. Nessuno sapeva come ripulire tutto così ho sparso della benzina sopra il corpo di Ciro e gli ho dato fuoco con la sigaretta che stava fumando il Padrino. Causammo alcuni incendi più in là, arrivarono a trovare alcuni resti del corpo di Ciro ma non arrivarono mai a noi. Io il Padrino e tutto il dormitorio portavamo kili di Crack da Amsterdam in tutta Italia, ad Amsterdam è legale il Crack, così un giorno decidemmo di acquistare uno di quei negozi e di corrompere un poliziotto che lavorava all’aeroporto di Amsterdam-Schipol. Ci toccava andare ad Amsterdam una volta al mese a volte ci andavano il Padrino e altri ragazzi del dormitorio, io ci sono andato 10 o 16 volte. Avevamo inoltre una coltivazione di Marjuana in Città del Messico, passavamo in Sud America con un traghetto che passava per Puerto Rico in un’isola chiamata Emil Daniel. Dal Sud America atterravamo in Europa. Il Padrino diceva di aver incontrato dei terroristi in un viaggio dal Venezuela, diceva che erano riusciti a portare in Aereo delle pistole-smartphone, erano identici a dei telefoni solo che smontate erano delle normali pistole. Ovviamente il Padrino reagì in una maniera violenta ed esagerata, prese per la testa il primo terrorista e gli sbatte la testa contro il finestrino dell’aereo. Il secondo lo strangolò ed il terzo riuscì ad uccidere alcuni civili con il suo M-16 montabile, ma comunque trovò il modo di ucciderlo strangolandolo come il secondo. Tutto era avvenuto 12 giorni dopo della morte di Ciro, era per questo che avevamo tentato di ucciderlo solo con un’accetta per il legno, per evitare i controlli per chi aveva maneggiato armi ed esplosivi nell’ultima settimana sull’aereo. Ciro era un Marxista che dopo essersi disintossicato aveva dato il nostro indirizzo alla polizia di Palermo, per cui avevamo pensato bene di ucciderlo. Il lavoro di mafioso prendeva almeno il 70% della vita privata di ogni uomo di tutto il dormitorio. La situazione stava cominciando a diventare ingestibile, eravamo come la famiglia Narcos: avevamo milioni di euro in contanti e non potevamo dare nell’occhio. Donavamo soldi a chi ne aveva bisogno e arrivavamo al punto di seppellirli e nasconderli. Ne stavamo parlando al bar Spina, alla radio davano “Money” una canzone dei Pink Floyd, eravamo proprio nel mezzo del brano in cui c’è un assolo di chitarra ritmica e alcuni rumori di cassa assieme a David Gilmour che ripete la parola Money un milione di volte per rendere la melodia orecchiabile. Il Padrino si stava togliendo la giacca per il caldo che stava infestando il bar, aveva l’aria scocciata. Non mi sono mai chiesto perché andassimo da anni in quel bar, era brutto costicchiava e ne avevo le balle piene. Sembrava più un bar a cui stare a chiedere il pizzo, i muri cadevano a pezzi ed erano pieni di edera e di muffa. Sarebbe stato bello bruciare tutto, io ero il primo a cui veniva voglia di bruciare tutto, ero l’addetto a bruciare. Sarà stato per quella volta che mi hanno fatto provare il lanciafiamme per torturare l’addetto mafioso alle pulizie di una scuola media di Palermo. Era un’arma a cui mi ero affezionato ancora di più della fiamma ossidrica, era divertente. Sarebbe stato magnifico bruciare tutto il bar con il personale dentro, dopo tutto i soldi che chiedevamo facendo il pizzo erano tutti soldi nostri, eravamo solo noi in quel bar. Il personale era piuttosto stronzo e gli davamo pure la mancia, io avevo sempre rifiutato come mr. Pink nel film “Le Iene”. Il proprietario era un vecchio ciccione che fumava dentro il ristorante, era stato in prigione due volte per “Usura”. Una volta il Padrino stava per sparargli. Il Padrino era sempre stato violento ma non era mai stato in prigione neanche quando ha ucciso i terroristi, perché ha preso il controllo dell’aero atterrando nell’aeroporto più vicino. A volte provo a immaginare un mondo senza le droghe, senza alcol e senza giochi di dipendenza. Un mondo sicuramente più felice, ma il Padrino mai avrebbe rinunciato allo spacciare, perché tutto il mondo ne era dipendente ed erano disposti a dargli milioni di euro solo per averne qualche grammo, ma da come il Padrino ne rimase felice da tutti quei soldi era anche terribilmente spaventato. Bastava solo aspirarne un pochino e si diventa pazzi, e tutti gli spacciatori che vogliono guadagnarci ti chiedono troppi soldi per una cosa a cui chi ne è dipendente non è disposto a rinunciare. Pochi anni dopo chiudemmo tutto, i poliziotti fecero irruzione nel dormitorio di Palermo, Il Padrino era disperato e per liberarsi uccise due carabinieri con una forchetta. La ficcò dritta nel cranio, mi ricordo bene la scena, c’era sangue e minuscoli pezzetti di cranio dappertutto. La attività di spaccio con tutto il dormitorio è chiusa, tutti sono stati deportati a un carcere di Palermo, me compreso. Ora scrivo dalla cella n. 586, tutto il dormitorio si è beccato l’ergastolo, ma siamo ancora tutti assieme…

(THE END)

Scritta da me, Filippo a 12 anni