Storia di una fuga parte VI

12/ 01/ 2030

Cara mamma, oggi ho fatto ancora quel sogno. Sono passati parecchi anni dal rapimento, ma come ti dicevo non smette di tormentarmi.

Ero ancora in sedia a rotelle ed ero invecchiato. È comparsa una scia di luce e delle falene. C’erano inoltre delle statue addossate alle pareti di gente che conoscevo. Come Pompei. Le mura diventavano sempre più strette, e dal pavimento usciva metanfetamina e bottiglie su bottiglie di birra. Si hai capito bene! Metanfetamina, quella di cui abusavo da ragazzo rubandola dall’ospedale. Mi arrivava sul collo, e appena mi raggiunse il naso ricordai quell’indescrivibile e dolciastro sapore del quale avevo sempre fatto uso fino alla disintossicazione. Al solo pensiero mi si dilatarono le pupille. Si stava creando uno strettissimo corridoio. C’era una sola uscita distante da me anni luce. Dovevo fare in fretta perché l’intero andito si sarebbe riempito di stupefacenti. E alla fine riuscii a raggiungere l’uscita.

In questi due giorni sto ancora affrontando la depressione causata probabilmente dalla morte di Matteo. Era l’unico che mi voleva bene a questo mondo e probabilmente adesso sta leggendo questa lettera con te. Mi rendo conto che invece di chiudere le porte al resto del mondo dovrei aprirle e dimenticare questa storia. Ho ripreso a bere, e a abusare di droghe, anche dopo il lavaggio gastrico. Sto tutto il giorno sul divano a guardare la televisione o a riguardare vecchie foto. Sono ingrassato di qualche kg. Stammi bene Matteo e salutami mamma se stai leggendo…

“Sei ancora qui?” Chiesi.

“Te l’ho già spiegato, io non me ne vado finché non confessi tutto.”

“Non posso ancora credere di essere arrivato a questo punto di degrado mentale. Il dottore aveva detto che è una cosa seria, forse dovrei parlare di te anche con qualche psicologo.”

“Ti riempirebbero di inutili farmaci a tal punto che non riuscirai più a reggerti in piedi. Ti prenderanno per pazzo. Forse dovrai convivere con me ancora per un po’.”

Credo che il Creatore abbia mandato qualcuno a farmi pentire di ciò che ho fatto. Bojack è una personificazione di Matteo. Il suo nome è ispirato a una serie TV del momento, in cui il protagonista è un uomo antropomorfo con le sembianze di un cavallo. Indossa una maschera da cavallo, la stessa che portava Matteo. Il suo carattere è difficile, prima di tutto è palesemente afflitto da narcisismo e superbia, su questo sono sicuro. È anche a volte freddo e cinico, e data la sua superbia io per lui sono solo un effimero insetto.

Sono, appunto, passati più di vent’anni dal rapimento di Jago, ora sono invecchiato ma nonostante tutti gli anni passati non posso ancora credere di avere sparato a Matteo. Ricordo il funerale, ricordo il colpo che gli perforò il cranio. Ricordo il suo cadavere che aveva assunto un colore più bianco della farina di buratta. La farina più bianca di tutte, con la quale mamma impastava il pane a Ragusa. Il suo occhio destro era inclinato verso il basso, e i suoi brillanti bottoni d’ottone erano caduti e si erano sparsi tra il sangue e le sue costole rotte. Ricordo Michele in lacrime e Freid frustrato e avvilito. Ricordo Jago morto soffocato dalle tante botte che aveva ricevuto.

Come siamo arrivati a tutto questo?

La pazzia porta a cose terribili. La pazzia è portata dalle droghe. Le droghe sono portate dalla mia solitudine. La solitudine è portata dalla depressione. La depressione è portata dalla morte di Matteo. La morte di Matteo è portata da me. Tutto accade per un motivo. E se mi ritrovo qua è solo per colpa mia.

Dopo tutto questo tempo mi sono convinto a accontentare Bojack. Così presi due acidi per la creatività, fecero un rapidissimo effetto e subito le mie pupille erano diventate ventose. Avevo i miei 90 anni buoni. C’era un dottore che conoscevo, (l’unico che sapeva che mi drogavo), e disse che di questo passo sarei morto molto presto. Ma io non lo ascoltavo. Pensavo di essere ancora giovane e che bastava non passare a droghe pesanti. A 90 anni non erano molti quelli che cominciavano a farsi. Ogni giorno chiudevo gli occhi e mi addormentavo con la paura di non riuscire più riaprirli la mattina. Sapevo che sarei durato, se fortunato, una settimana. Ma volevo vivere i miei giorni senza il peso di Bojack. Chiamai uno scrittore, Filippo Rosito.

Il primo giorno gli feci un caffè. Amaro senza zucchero. Come Fried non era tanto alto. Portava un braccialetto da uomo arrugginito sulla destra, che ormai gli era piccolo. Era più giovane di me.

Si allacciò le scarpe. Mocassini. Non nascosi la canna, perché sapevo che prima o poi avrei dovuto dirgli che mi facevo. Lui come mi vide fumare me la levò subito di bocca. Mi disse circa il solito bla-bla delle droghe, e che per la mia età è fatale. Avevo fatto talmente tanti danni al mio corpo che era come se avessi già scritto la lapide.

Dopo un po’ ci fece l’abitudine.

Nonostante tutti gli anni ero ancora famoso in America, non avevo la felicità ma avevo la ricchezza e la fama. Conquistai la ricchezza con il ristorante fino al ’60. Poi durante il mio coma, in un modo o nell’altro lo cedettero ad un deficiente che lo fece fallire. Non lo fece fallire economicamente, perché il ristorante c’è tutt’ora a Jersey. Non c’era più la stessa sensazione che richiamava i piatti italiani e l’agriturismo. Chiusero tutto il boschetto e il giardino ai bambini, perché dicevano che: “Il manto erboso deve riposare, e che si rovinavano i fiori.” I fiori erano margherite e viole che crescevano in modo genuino, senza che nessuno le piantasse. Avevo delle aiuole, e dei fiori a cui tenevo, dove avevo scritto di non toccare. Ma non mi spingevo oltre. Il ristorante è diventato famoso come primo agriturismo d’America, e doveva quindi mantenere le sue origini. Non doveva privare i bambini di giocare all’aperto. L’aveva fatto diventare un posto monotono e triste. Non mi era rimasto più niente.

La mia fedina penale era piena di reati. Avevo il peso alle spalle di aver ucciso…Quante persone? Due o tre di cui un bambino. Sono sempre stato una persona pragmatica e solare, ma questi ultimi tempi hanno fatto proprio schifo. Guardavo le mie mani, e pensavo, ho sparato io a Matteo premendo il grilletto con queste mani. Guardavo le mie scarpe, e pensavo, ho spinto io il pedale per accelerare con queste scarpe e ho ucciso Oliver. E la cosa più brutta è che a volte mi sentivo anche sollevato ad aver ucciso della gente, questo per me è imperdonabile. Se non avessi preso sotto Oliver mi sarei andato a schiantare, se non avessi sparato a Matteo ora sarei in carcere.

Ora vi chiederete… Ma quale depravato mentale chiamerebbe un handicappato per un rapimento? Io non avevo esattamente questo ruolo, dovevo fare la sentinella. Il mio mestiere consisteva stare fuori a guardare se c’erano sbirri o quelli che vogliono prendere Jago. Quindi tutto sommato aveva anche senso.

Non è che passasse tanta gente in quel vicolo. Spacciavano, eroina, si grattavano continuamente a sangue per i suoi effetti. Facevano scommesse. Ad un tratto uno perse a poker, e si rifiutò di pagare. Gli andarono incontro tre ragazzini incappucciati, (sballati), e anche lì giù pugni e pugni. Mi allarmai. Stavano facendo rumore e il rumore richiamava i poliziotti. Poi cominciarono a girare coltelli, e una signora peruviana si affacciò al balcone. La prima di una lunga serie. Era grassa, e con occhiali con fondi di bottiglia. Urlò qualcosa in dialetto peruviano, e se anche non capivo niente contribuiva a urlare. Corsi subito da Matteo, dentro al capanno. Jago era morto per primo. Lo avevano gonfiato di botte a tal punto che non riuscii nemmeno più a respirare. Lo avevano legato alla sedia e lì da morto era rimasto. Freid ci era andato pesante, di tirapugni. Ovvero un polsino di cuoio o di ferro prolungato alla mano che a volte aveva sopra qualche chiodo.

Mi precipitai urlando:

“Sbirri. Fuori c’è una rissa, potrebbero arrivare.”

Parli del diavolo, e spuntano le corna. Erano arrivate tre auto con tanto di sirene accese. Sarei finito in carcere per colpa di tre mocciosi tossici e una grassa signora peruviana che urlava cose incomprensibili.

“In bagno. Mettete Jago in bagno.”

La sua testa penzolava a sinistra e faceva cadere la saliva sulla spalla di Michele. Fried si nascose in bagno con Jago dato che era sporco del suo sangue dalla testa ai piedi. Nascondemmo tutti le maschere. Eccetto io che non la portavo. Matteo si tolse quella di cavallo e Miky quella da piccione. Uscii per vedere la situazione. Uno sbirro aveva ammanettato e separato la vittima dai due tossici. La signora peruviana era scesa per raccontare ciò che aveva visto. Avevano delimitato la zona della rissa con un nastro bianco e rosso e avevano chiamato l’ambulanza. Un poliziotto mi chiese di fornirgli informazioni riguardo ai mocciosi.

Gli dissi che non avevo visto nulla. Altrimenti sarebbe stato “omissione di soccorso”, o qualche reato simile che sarebbe bastato per darmi l’ergastolo. Ma lo sbirro mi rivolse più domande perché quella gran stronza della vecchia peruviana aveva detto che io avevo assistito tutto il tempo alla lite.

Mi fece all’incirca domande del genere:

“Potrei entrare? Può mostrarmi i documenti?”

Allora intervenne Matteo che gli ricordò che per entrare in casa di qualcuno serve un mandato. Lo sbirro si insospettii ma non mi fece poi tante domande e alzò i tacchi.

E quando chiudemmo la porta, eravamo ancora sepolti a 40 metri sotto terra dai nostri problemi. Quelli della setta avevano detto che lo avrebbero lasciato vivo, e se quindi fosse riuscito a scappare ci avrebbe visto le facce. Per questo dovevamo tenere le maschere. Ma ora Jago è morto e noi lo saremmo stati con lui nel giro di qualche ora. Dopo un po’ gli sbirri se ne andarono. Quelli della setta sarebbero arrivati tra poco. Avevano delle nostre foto, i nostri nomi, sapevano dove abitavamo, avevano il nostro numero di telefono. Da quando avevamo catturato la preda eravamo tutti di umore molto variabile e spaventati. Ma ora avevamo raggiunto il picco della follia, non eravamo più in condizioni per pensare. Io entrai nel capanno, per tenere a bada la situazione. Scoprimmo che Jago era un bravo manipolatore, probabilmente si era inventato balle su balle o magari era anche tutto vero. Ci disse che la spilla rossa che portava Fried sulla sua giacchetta era in realtà un localizzatore. Ci rivelò anche che la setta viveva di ricatti, uccideva persone e poi diceva ai loro cari o famigliari di lavorare per loro se non volevano fare la stessa fine. E che probabilmente quelli che avevano ucciso mamma e papà avevano anche loro la spilla rossa. Non avevano tutti quella spilla ma attaccavano il localizzatore ovunque. Collane, bracciali, anelli, collane per la comunione. Riteneva che ci fosse un faraone o un sovrano a capo di tutto e che guidava la corruzione e la criminalità del mondo come burattini. Lui muoveva i fili.

Per Michele erano solo baggianate che si inventava al momento. Freid non sapeva cosa dire. Io ero fuori, e Matteo non riusciva ancora a comprendere quello che era successo.

Freid, disse che la spilla in effetti gli era stata data da loro. E che gli era stato detto di non toglierla.

A quel punto Matteo diventò una belva. Chi erano questi? Cos’avevano contro di noi? Perché stanno mandando a puttane la nostra vita? Ci stanno spiando?

Questo non lo sapeva nessuno.

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