Anche questo racconto è in fase di modifica, quindi non sorprenderti se non c’è coerenza nel testo tu che leggi.
Grazie.
Tra l’inspiegabile silenzio ne approfittò per entrare il dottore.
“Buongiorno.” Disse lui.
“Buongiorno a lei.” Ricambiò Matteo.
Non riposi.
“La porterò in piscina per ricominciare a muoversi. Dove avrà modo di parlare con l’infermiera.”
Non riuscivo a parlare e se anche avessi potuto non lo avrei fatto. Avevo solo l’irrefrenabile bisogno di fumare una sigaretta.
“Potrei chiederle cortesemente se prima può accendermi una sigaretta?” Chiesi al dottore.
“Mi scusi ma non fumo.” Rispose.
“Io ne ho una.” disse Matteo alzandosi.
Il dottore si fece passare la sigaretta da Matteo per poi accendermela. La prese con la sinistra rivelando la mano prima coperta con la manica. Tre cose mi colpirono: la prima che non portava più la fede e la seconda che era diventato mancino. E infine la terza che il dottore aveva anche smesso di fumare dall’ultima volta che lo avevo visto, quindi tre mesi fa.
Cercavo di non piangere, mi sembrava ancora impossibile che i miei genitori fossero morti. Mi sembrava ancora troppo strano che dopo tre mesi di coma e lavaggio gastrico l’unica persona che si fosse degnata di venirmi a trovare fosse stata mio fratello solo per portarmi la triste notizia della morte di entrambi i miei genitori. In tre giorni ho avuto modo di controllare: nulla…nessuna lettera, nessuno di quei biglietti o fiori con scritte frasi positive. Mi sembrava anche una giornata felice, il tempo era buono, ero ansioso della visita. Invece no: quel giorno il tempo ingannava, e quell’unica nuvola che è in cielo si prolungherà proprio su di te, Francesco, appena uscirai dall’ospedale comincerà a pioverti in testa come quella di Fantozzi.
Anche se…se fosse successo non mi sarei sorpreso.
“Dottore? Potrebbe dire all’infermiera che mi recherò lì tra poco?” Chiesi
“Si, certo.” Rispose.
“Vedo che qui vivi nel lusso. Come sei organizzato?” Mi assecondò Matteo.
“Questo corridoio è tutto mio, compresa la piscina sotto. Dall’altra parte ci stanno i pazienti che hanno pagato solo le loro cure.”
Fece cenno di aver capito. E poi rimase in silenzio a osservare tutta la mia ricchezza.
“Di cosa sono morti mamma e papà?” Chiesi io qualche secondo dopo.
“Non vorrei dirtelo o ti rovinerebbe la giornata.” Rispose.
Stavo per rispondergli, ma uno scoppio netto e improvviso mi fermò. Una diga straripata, un palloncino esploso, un masso nell’acqua. Un proiettile aveva trafitto il vetro della finestra e penetrato il cuscino del letto. Ma non mi aveva colpito.
Matteo corse verso di me portandomi fuori dalla stanza, trainandomi per il braccio e afferrando la sedia a rotelle.
I muri del corridoio erano alti e spogli con qualche macchia di vernice colorata. C’era solo un uomo che, perplesso, sostava davanti all’uscita, un uomo verso i trentacinque anni. Portava un pullover color latte di cocco che teneva sopra la camicia a quadretti rosso ciliegia. Sembrava avesse qualche forma di autismo, era lì da solo che ci guardava. Non si era nemmeno spaventato dallo sparo.
Poteva aver sentito il dialogo tra me e Matteo e sapere che eravamo imparentati con il Signor Musso.
La porta era già aperta, una volta solcata quella soglia scomparimmo nel nulla.
L’auto era una Porche, rossa e con qualche graffio. Non ricordo esattamente che modello… penso una 356.
“Abbassati, così non ti vede.” Disse Matteo
Aveva le mani nei fianchi, come se avesse perso qualcosa. Si guardò intorno e cominciò a pensare alle chiavi dell’auto. Poi si ricordò della giacca, guardò nel primo taschino a sinistra di esso ma non vi erano. E successivamente infilò le mani nell’altro taschino e ne uscì vincente. Salimmo in auto. O almeno lui riuscì da solo e mi aiutò posandomi sul sedile posteriore. Ci fu un attimo di silenzio come nei funerali, la brezza che entrava dal finestrino mi accarezzava i capelli e portava con se qualche spiga di grano e polvere che si posava sul mio naso e cadeva per terra. Poi quell’attimo finì interrotto dal rumore assordante dell’auto appena accesa. C’era solo quel ragazzo autistico che continuava a fissarci dubbioso. Avrei potuto dirlo a Matteo, ma evitai, poiché ero certo che sicuramente lo avrebbe fucilato come un cane in strada. Ma non ce la facevo a vedere un altro cadavere.
Quando partimmo, la strada si rivelò essere molto ripetitiva. Era una lunga distesa di campi di grano e erba secca. Non c’era neanche un albero che poteva resistere ai raggi del sole battente e allo smog. E nemmeno un fiore riusciva a crescere. Ci capitava ogni tanto di imbatterci in un palazzo diroccato dove un po’ di ombra c’era, ma quasi nulla. Non era caldo era…afa, che ci faceva soffocare per avere un filo di ossigeno. Questi sentieri mi ricordavano i paesini Italiani sperduti in mezzo al nulla più assoluto.
Alla prima rotatoria c’era scritto: “Marzipan Lake”. Era la prima rotatoria che facevamo da quando eravamo partiti e per il resto era una strada dritta con qualche curva. Ero stanco e per questo anche taciturno.
Matteo parcheggiò a fianco a una vecchia casa.
Sorgeva al centro di uno spiazzo di terra brulla coperto da rami e foglie secche. Crepe profonde attraversavano i muri. Una scia di buganvillee, era cresciuta arrampicandosi come edera sul parapetto del terrazzo. Di vivente c’era solo un’albero. Piccolo e nano, che era sorto a un metro di distanza dal palo arrugginito dietro alla finestra del salotto. E inoltre vicino a dove avevamo parcheggiato, cioè davanti alla casa, c’erano tre bidoni della differenziata: l’umido, la plastica e il vetro. Il vetro era pieno di barattoli di conserve e bottiglie vecchie di vino sparse perfino per terra. La plastica invece era piena di confezioni di acqua aromatizzata alla ciliegia da due litri e l’umido riempito fino all’orlo di pattume vario. Nessuno passava mai per di lì e il proprietario della casa viveva tra l’immondizia. E del resto doveva fare molta strada per arrivare al cestino poiché tra la casa e esso vi era un gigantesco campo di grano alternato con dell’erba alta e gialla.
Matteo aprì lo sportello dell’auto.
“Dove siamo?” Chiesi con le mie poche forze.
“Al sicuro non preoccuparti…”